Il papavero scarlatto E
infine quella fanciulla giunse in quel giardino completamente ricoperto
dalla neve. Che strana sensazione assistere a quello spettacolo privo
di colore, freddo eppure anche così ricco, così intenso.
Non c’era nulla che si discostasse dal bianco, un’immensa
nuvola sulla quale lei potesse danzare leggera dimenticandosi di tutto
quello che il mondo osava proporre, di tutto quello che aveva
ormai dimenticato cosa fosse la grazia, cosa rappresentassero quei
dolci fiocchi di neve mentre si posavano sul terreno.
Non voleva assumere nessun colore in quel momento, non ne sentiva alcun bisogno, si sublimava in un etereo paesaggio che rifletteva e ingigantiva le sue sensazioni, una tela che si era ribellata al pittore e, seppure ricca di vissuti, voleva mostrare la sua primeva condizione, voleva racchiudere tutti i disegni possibili in un’omogenea distesa bianca. Dai suoi piedi nudi il gelo poteva penetrarla ancora di più, era secco e pungente e sembrava bloccare il tempo, congelare tutto quello che potesse essere visto o non visto, anche il pensiero rinunciava a procedere in maniera razionale e costretto in una statua di ghiaccio rimaneva immobile a racchiudere un tesoro immenso. Quella fanciulla si sentiva libera di danzare come non aveva mai danzato, tutt’uno con la sua veste leggera e svolazzante, bianca naturalmente, come tutto ciò che la circondava, come una natura che appariva placidamente addormentata e svelava il suo lato più effimero. Un piccolo fiocco di neve che si posava fra le mani e che al calore del sole era destinato a sciogliersi e a scomparire per sempre, acqua pura a nutrire il terreno. Tutta l’essenza del Tutto non era contenuta in mille colori l’un contro l’altro armati, non si manifestava in maniera violenta ed improvvisa, ma si era posata come neve su un pallido giardino, con grazia, in un vuoto sentire, in una pacata celebrazione del nulla come fertile suolo, come unica condizione di possibilità e di eventualità, proprio come il vaso è pronto ad accogliere ogni cosa solo nel momento in cui è vuoto. Ma in quella magica atmosfera c’era un'unica nota che si distingueva dalle altre, un unico abbozzo, un unico tocco di colore su quella tela bianca. Un esile fiore che emanava la sua bellezza, nient’affatto intimorito dalla neve e dalla sua osservatrice. Un papavero scarlatto. Un punto rosso intenso in una monotona distesa di bianco. Ma un punto dall’incredibile bellezza. L’animo della fanciulla si sentiva adesso ancor più sereno e arrivato e lei continuava a danzare saltando ancora più in alto, una bianca farfalla, un’aggraziata libellula, le ali del vento la stavano sorreggendo e lei roteava e faceva dell’aria il suo regno, in fondo non era molto diversa dall’aria, anzi era appunto fatta di aria. E di neve. E non c’era nulla che potesse in quel momento appagarla più di quel papavero scarlatto che naufragava tra le immobili onde bianche di neve. Paul terminò di dipingere quella scena dopo un’intera settimana di lavoro, appariva proprio come l’aveva pensata, lei era più bella che mai, con la sua veste bianca e leggera che sembrava davvero rigonfiata dal vento e quel giardino bianco ricoperto di neve, sovrastato da quell’unico bellissimo colore, eccezione fatta per un esile stelo che alzava alto verso il cielo il suo calice scarlatto. Eppure c’era ancora qualcosa che mancava a quei raffinati tocchi di colore, anzi probabilmente c’era qualcosa di troppo, era tutto troppo reale, troppo preciso, lei era fantastica, era proprio come la sua Helene, forse troppo. E poi gli sembrava che non fosse ancora riuscito ad esprimere ciò che effettivamente voleva trasmettere, non era ancora la sua tela, ma la tela che i pennelli avevano voluto realizzare in un’anarchica ribellione. Così prese il dipinto e lo posò su un vecchio tavolino, sopra agli altri tre che aveva già provato a concludere. Tra loro erano molto simili, avvertiva un’evoluzione e un miglioramento rispetto al primo, nonostante le differenze fossero comunque minime. Nel corso del tempo lei era diventata sempre più bella. E il rosso era diventato sempre più intenso. Anche il bianco nell’ultimo dipinto appariva ancora più bianco. Ma non bastava. Non era arrivato il momento di poter affermare che quell’opera fosse perfetta. Sempre che la perfezione esistesse davvero. Sempre che non fosse un miraggio, una meta lontana che i più avevano la presunzione di credere di poter raggiungere. Cosa doveva aggiungere a quella scena? O cosa doveva togliere? Che impressione però notare come gli occhi di lei fossero proprio gli occhi di Helene. Gli stessi. E lo guardavano. E lui si sentiva attratto da quella ragazza che innocente danzava sulla neve, nella sua veste bianca che leggera e svolazzante fasciava le sue forme e ne accentuava la bellezza. Non era il caso di continuare a spaccarsi il cervello davanti alla tela per il momento. Paul decise di uscire; prima di aprire la porta indossò un cappello e il suo pesante cappotto grigio, gli ultimi giorni erano stati freddissimi e le strade erano coperte dalla neve. A Paul piaceva camminare e lasciarsi attraversare dai pensieri, senza prefiggersi una meta ben precisa, ma semplicemente svoltando di qua e di là, osservando i volti delle persone con le quali tuttavia raramente aveva il desiderio di comunicare. Strano il crepitio delle sue scarpe sul manto bianco che ricopriva il suolo, scandiva il ritmo del suo camminare, del suo pensiero e del suo respiro, le tre cose si stavano fondendo in una sola il cui spirito era espresso da quel rumore sottile. Questa volta il bianco non era padrone indiscusso, la neve non aveva nonostante tutto la forza di prevalere in maniera definitiva, la città si difendeva dal vuoto rilanciando deflagrazione, colori intensi e rumore. Tanto rumore. Forse troppo. Non come nel giardino innevato in cui lei amava ballare assieme alla sua bianca veste svolazzante. Con gli occhi profondi che Helene le aveva prestato. “Qui giace Helene Raymet” recitava la lapide davanti alla quale era finito Paul. Quel giorno la sua passeggiata alla rinfusa l’aveva condotto nel cimitero, che scherzo del destino, non era molto lontano da casa sua. La sua Helene riposava vicino al luogo in cui lui viveva. La sua Helene che aveva prestato gli occhi a lei. Ma lei danzava ancora ingenua e noncurante nel giardino innevato, vestita solo di una bianca veste svolazzante. Helene no. Era anche quella volta una fredda giornata invernale ed anche quella volta la neve scendeva e ricopriva le strade. Che bello quel bianco che celava ogni cosa, quel candore che gli ricordava il seno di Helene, quello stesso giorno, l’ultima volta che avevano fatto l’amore. L’ultima volta che Paul aveva avuto il piacere di sfilarle quella bianca sottoveste, leggera e svolazzante, che le fasciava le forme. L’ultima volta che avevano volato insieme sospesi dal vento nella danza di un fiocco di neve. Quello stesso giorno che Helene aveva deciso di spiccare un salto più in alto, verso il cielo. Un tratto di strada ghiacciato. I freni impazziti e lui che non era riuscito a controllare la situazione, a evitare un incidente. E a evitare la morte della sua Helene. Parlavano della neve un attimo prima che morisse. Di come era bella e di come riuscisse a raccogliere il Tutto in un solo pallido colore. Il bianco. Il bianco che sembrò risucchiarlo quando capì che la testa di Helene, poggiata sul cruscotto, non si sarebbe più risollevata. Fiocchi di neve le sue lacrime nel conoscere la morte proprio in quel modo, proprio con Helene. Helene, che un attimo prima di morire, mentre parlava della neve, aveva gli occhi di lei. Lei che danzava nel giardino innevato con la sola sua bianca veste leggera svolazzante. Mentre Helene era morta. Paul decise che era rimasto abbastanza a fissare la lapide, davanti alla quale, in un vaso bianco, erano riposti dei papaveri rossi che aveva portato in precedenza. Capì che se non avesse finalmente ultimato il suo quadro quello stesso giorno, non ci sarebbe riuscito mai più. E sarebbe stato davvero un peccato, quella era la sua tela, la tela del giardino innevato, in cui lei amava danzare attorno a un papavero scarlatto, con gli occhi rubati a Helene. Ma non era solo di Helene che voleva parlare nel suo quadro. Anzi Helene era ormai seppellita, mentre lei era viva e danzava librandosi nell’aria. E poi c’era quel fiore rosso, quel punto di colore che si evidenziava nella bianca distesa innevata. La bellezza che si manifestava senza risparmiarsi in alcun modo in un calice che si alzava al cielo partendo da un esile stelo. E lei che vi danzava attorno. Lei che non aveva affatto gli occhi di Helene. Mancava qualcosa alla sua tela. O forse c’era qualcosa di troppo. Helene non avrebbe mai potuto comparire davvero, non almeno in quella fanciulla che danzava nel dipinto. Lei che ballava ed era tutt’uno col bianco. Ma che al tempo stesso si distaccava da esso. Proprio come un petalo scarlatto che si posi su un bianco manto di neve. Paul teneva fra le mani l’ultimo quadro realizzato e fissava, poggiata sul tavolino, la tela bianca sulla quale avrebbe gridato finalmente ciò che voleva comunicare. No anzi non gridato. Doveva fare come la neve. E che dire di lei? Lei era forse di troppo, lei che ripeteva il librarsi della neve, lei che ripeteva gli occhi di Helene, lei che ripeteva lo scandalo di un papavero rosso. Di sicuro invece la neve era essenziale. E il freddo. Non era affatto vero che solo il calore potesse esprimere l’anima. Anzi era nel bianco di una bianca tela che il Tutto poteva essere congelato e che davvero ogni cosa poteva affermare di essere contenuta. Solo il vuoto poteva accogliere l’eterno e prenderlo per mano, mancanza e presupposto per l’azione, condizione di ogni possibile evento, caos primevo nel quale tutti i colori e tutte le luci erano contenuti in un solo bianco colore e in una sola bianca luce. E il tempo fluiva proprio come cadeva la neve, imperterrita e inarrestabile, proprio come continuava a posarsi quella volta, sul parabrezza, mentre Helene continuava ad avere la testa poggiata sul cruscotto. Un fiocco di neve caduto a terra e scioltosi al sole. Un rivolo di sangue urlava rosso, scandalo nella pace di quel bianco. Come poteva lei continuare a danzare non curandosi della sua disperazione al ricordo di Helene? Perché lei non le restituiva gli occhi rubati? Lei che danzava nel bianco giardino innevato, vestita della sola sua bianca veste leggera che svolazzava gonfiata dal vento. Ma non era lei che poteva racchiudere la bellezza. Né la pace. Né il bianco. Né il vuoto. Né il Tutto. Né lo scandalo. Non era lei che potesse permettergli di esprimere ciò che davvero voleva comunicare, in un’impresa che da tempo non riusciva a compiere. La pace era già contenuta nella neve. E anche il bianco. E anche il vuoto. E anche il Tutto. E lo scandalo era già contenuto in quel rosso calice che si alzava al cielo sorretto da un esile stelo. Paul intrise il suo pennello nel bianco. Per inserire il bianco in un dipinto non bastava lasciare la tela come era all’origine. Quello non era un bianco. Non era un colore lucente, non era puro come invece quello impresso dal pennello. Il verde, il marrone, il cobalto che timidamente si affacciavano sui quadri precedenti non erano più necessari. Erano di troppo. Non erano loro che potevano racchiudere la bellezza. Né la pace. Né il bianco. Né il vuoto. Né il Tutto. Né lo scandalo. Proprio come lei che aveva rubato gli occhi a Helene. Le forme ormai non si distinguevano più, non c’era un cielo da cui cadeva la neve, non c’era un giardino ricoperto di neve ma soltanto la neve, senza nient’altro. Eppure mancava qualcosa. Un altro pennello, di grandezza diversa, intriso nel rosso. Un punto circondato dal bianco. Un papavero scarlatto. © 2007 Marco Abundo |